Recentemente ho assistito alle rappresentazioni classiche che si svolgono annualmente nella mia città, Siracusa.
Sebbene io sia un’habitué del teatro aretuseo, ho provato un’immensa e nuova gioia nel trovarmi lì, nel cuore dell’antico, della storia e della cultura.
Ho assaporato la gioia di tornare nella mia città dopo quasi un anno e di riappropriarmi, seppur non del tutto, della normalità, dei miei luoghi.
Nella suggestiva cornice del teatro greco, in un tardo pomeriggio di questa torrida estate, ho goduto dello spettacolo delle Coefore/Eumenidi, due delle tragedie eschilee che compongono la trilogia Orestea.
Non era la prima volta che assistevo alla rappresentazione della trilogia e, ad essere sincera, il mio approccio alla rappresentazione, questa volta, è stato particolarmente scettico.
Da sempre nutro non poche perplessità rispetto alla rivisitazione in chiave moderna, anche solo al livello scenografico, delle tragedie.
Per questo motivo ero, in partenza, un po’ delusa da quello che mi era stato riferito da chi vi aveva precedentemente assistito.
Invece, come spesso accade, mi sono ricreduta.
Lo scetticismo e il pregiudizio hanno lasciato il posto all’entusiasmo, allo stupore, alla commozione.
Lo spettacolo che mi si è presentato davanti era emozionante, complesso, originale e classico allo stesso tempo.
Il ritorno alla normalità e la bellezza di tornare a teatro hanno probabilmente reso ancora più emozionante e unica, ai miei occhi, l’opera teatrale.
Ma non è stato solo questo, ne sono certa.
La verità è che la tragedia eschilea, con il suo intento fortemente didattico, il suo pathos e i suoi accesi contrasti, offre sempre nuovi spunti di riflessione.
L’indagine che il poeta tragico fa della complessità umana è straziante e sincera, profonda e articolata.
Assistere ad una sua rappresentazione è un po’ come guardarsi allo specchio. I personaggi eschilei non sono che il nostro riflesso, una nostra proiezione.
Le loro contraddizioni, le loro sofferenze e i loro interrogativi sono ancora, incredibilmente, i nostri.
L’Orestea, essendo una trilogia, si compone di tre tragedie: Agamennone, Coefore e Eumenidi.
L’Agamennone racconta dell’uccisione dell’acheo Agamennone, di ritorno da Troia, vittorioso.
Autrice dell’atroce delitto è la moglie Clitemnestra con la complicità dell’amante Egisto.
La donna, forte e risoluta, protagonista, non unica, della trilogia, ma figura centrale, lo attende a casa e lì lo uccide mentre l’Atride è intento a lavarsi.
L’eroe, valoroso conquistatore di Troia, viene così ucciso dalla donna che dovrebbe accoglierlo con i dovuti onori ed il dovuto rispetto.
Nelle Coefore, seconda tragedia della trilogia, Oreste, figlio di Agamennone e Clitemenstra, torna ad Argo dopo la morte del padre e dopo un lungo esilio per vendicarne la morte.
Per farlo, dopo aver consultato il Dio Apollo, egli uccide la madre Clitemnestra e l’amante Egisto.
Prima di questo atto, Oreste incontra la sorella Elettra, rimasta sola nell’ormai ostile casa paterna. Si tratta del toccante incontro tra due fratelli indissolubilmente legati dall’ amore e dal dolore, dalla sventura e dal desiderio di vendetta.
Nell’ultima tragedia della trilogia, infine, Oreste, vendicatosi del padre, viene perseguitato dalle Erinni, antichissime divinità osteggiate da tutti gli dei, personificazioni della vendetta.
Esse lo assillano, lo inseguono, lo tormentano per vendicare il terribile matricidio di cui egli si è macchiato.
In sua difesa giungono Apollo e Atena che, convocato l’Areopago, vota a favore di Oreste, per la sua assoluzione.
E così, egli viene assolto e liberato dalle Erinni che diventano Eumenidi, benevole.
Le Coefore/Eumenidi messe in scena quest’anno al teatro greco risultano, come dice il titolo, dall’unione in un’unica rappresentazione, delle ultime due tragedie della trilogia.
Mentre nella prima la figura centrale è quella di Clitemnestra, nelle Coefore e nelle Eumenidi, il protagonista principale è Oreste.
La prima tragedia, l’Agamennone, è caratterizzata dall’opposizione tra il personaggio di Agamennone e quello di Clitemnestra.
Il primo, eroe saggio e moderato, che in rispetto delle leggi divine, sacrifica la figlia Ifigienia per propiziare la propria partenza per Troia. La seconda, irriconoscente, crudele e forte, tradisce il marito partito per combattere e lo uccide, al suo ritorno.
Ai suoi occhi Agamennone è colpevole di aver ucciso la loro figlia, nonché di esser stato tanto lontano da casa.
Analizzando il personaggio di Agamennone e la sua triste morte, appare chiara la sua “inconsapevolezza”. Egli, infatti, va incontro alla morte inconsapevole dell’ingiusta sorte che lo attende.
E’ un po’ quello che succede a ciascuno di noi.
Nella maggior parte dei casi siamo inconsapevoli di quello che accadrà, di quale sarà il nostro futuro. È tutta qui la fragilità dell’uomo e la sua grandezza, nel coraggio e nell’incoscienza con i quali affronta, ogni giorno, l’incerto della vita.
Non è forse quello che accade nella vita di tutti i giorni? Noi tutti viviamo, quotidianamente, in una condizione di inconsapevolezza.
L’inconsapevolezza dell’eroe saggio si contrappone alla consapevolezza e alla lucidità di Clitemnestra, fredda assassina del marito.
Quello che racconta Eschilo, l’uccisione del marito da parte della moglie, sembra essere l’opposto di quello che, nella maggior parte dei casi, succede ai giorni nostri: l’uccisione della donna ad opera del marito.
Nella nostra società l’uomo apparentemente o solo fisicamente più forte sopprime la donna, fisicamente inferiore e spesso debole.
Nell’Agamennone è Clitemnestra a macchiarsi dell’atroce delitto e a mostrare tutta la sua forza e la sua crudeltà.
Ma nella tragedia eschilea, al di là dei ruoli, c’è un elemento ancora oggi attuale: l’incapacità di gestire le frustrazioni, la sete di vendetta e la ricerca di giustizia.
Nel dialogo tra Oreste e Clitemenstra delle Coefore, prima del matricidio, Oreste si richiama ad un dato strutturale della società arcaica, ossia la valorizzazione dell’operosità e del coraggio dell’uomo di fronte all’oziosità della donna che lo attende a casa, al caldo.
Agamennone, tornato dalla guerra vittorioso, riceve la peggiore accoglienza che una moglie possa tributargli: la morte.
Alla madre che si lamenta di aver vissuto lontano dal marito, privata del suo affetto, Oreste ribatte che mentre il padre era in guerra, lei era ad attenderlo nel palazzo, al caldo e al sicuro.
Non c’è forse, al giorno d’oggi, un simile retaggio? Non è forse ancora presente in alcuni substrati culturali della nostra società questa minore o minorata considerazione della donna che non lavora?
Non è forse proprio in forza di questa minore considerazione e di questa dipendenza economica che l’uomo fa della donna una sua proprietà, privandola di qualsiasi dignità e negandole ogni tipo di rispetto?
In ciò sta la grandezza delle tragedie classiche, nella loro straordinaria attualità. In fondo, nonostante i secoli passati, nonostante il progresso e l’evoluzione, l’uomo di oggi non è molto diverso da Eschilo, Euripide, Aristofane.
La fragilità dell’uomo è rimasta oggi la stessa di sempre. Cosi come sono rimasti immutati gli interrogativi che esso si pone, le paure che lo assalgono, i dubbi che lo tormentano.
Ci sono, nei personaggi eschilei, tutte le sfumature della natura umana.
C’è Agamennone valoroso, Clitemnestra fedifraga e spietata, Oreste vendicativo.
Ci sono l’amore ed il dolore, il senso di giustizia e quello di vendetta.
Fragilità e forza, passato e presente, tragedia e commedia, realtà e fantasia, non so che due facce della stessa medaglia.
Davanti ad una tragedia eschilea, non siamo forse davanti ad uno specchio?